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venerdì 30 gennaio 2009

Dedicato allo studioso fiorentino Alessandro Alinari.*

LA SCODELLA CON COPERCHIO DI MARCANTONIO GHONDI FATTA A CAFAGGIOLO
Di Alberto Piccini

Nel 1902 il Guasti pubblicava la seguente lettera indirizzata allo “Spectabili viro Francesco da Empoli in Firenze (Ministro di Pierfrancesco de’Medici)”, spedita dal Castello di Cafaggiolo nel Mugello da Giovanni Francesco Zeffi il 26 Settembre del 1521 :

Spectabilis vir.Sarà con questa una a Antonio di Bernardo dè Medici : fate che l’habbia : et più se li manda 2 scodelle con coperchio,che mi ha mandato a chiedere,et mandasi una scodella col coperchio a Marcantonio Ghondi et i vasetti a Giovanmaria,che glieli manda Lorenzo nostro padrone.Fate che ciascuno habbia le sue. Segue …………A Charlo Aldobrandi direte che le sue stoviglie sono cotte, et che le manderò presto …..

A dì 26 di settembre 1521,in Cafaggiolo - I-F-ZEFFI. ( nota n. 1)

Il Guasti sempre in polemica anche feroce a volte (interessanti disfide tra ceramologi che purtroppo oggi non si fanno più) con il Prof.Argnani studioso faentino campanilista e a volte un po’ fazioso ( nota n. 2) di fronte alla contestazione che Lorenzino non poteva essere “il nostro padrone” , avendo circa 9 anni, scrive a proposito di questa lettera e per chiudere la diatriba: “..i documenti han bisogno di essere interpretati….” Parole sagge e valide anche adesso, ma non voglio ora riaprire qui la “querelle” fritta e rifritta di “ Cafaggiolo o Cà Fagioli”, ma semplicemente rileggere il documento con lo scopo, se possibile, di ritrovare la famosa “scodella con coperchio” di Marcantonio Gondi fiorentino.

Nel volume del 1976 di A.N.Kube Italian Majolica XV-XVIII centuries-dedicato alle maioliche più interessanti dell’Ermitage di S.Pietroburgo è pubblicato un vaso così definito : “Vase with a lid,” con lo stemma Gondi ( a banker from Florence), datato dallo studioso russo al 1500/10 e attribuito dallo stesso a Cafaggiolo – n.51 del catalogo.Il vaso è alto cm.48 e largo cm.35,7 è quindi una “scodella con coperchio” di notevoli dimensioni tali da confondere qualche storico (nota n. 3), ma proporzionata come omaggio di Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici “nostro padrone” a Marcantonio Gondi figlio di Bernardo di Carlo di Silvestro, personaggio importante della Firenze della prima metà del XVI secolo, artefice della grande fortuna economica della sua famiglia e forte sostenitore politico dei Medici. Giovanmaria a cui Lorenzino manda 4 vasetti (non mi chiedete di cercare anche questi!!!) muore probabilmente giovanissimo ed infatti non figura nell’albero genealogico edito a Parigi nel XVIII sec. (Histoire genealogique de la maison de Gondi par monsieur de Corbinelli etc.etc.). Naturalmente una maiolica così interessante, così importante dal punto di vista storico è stata scartata dalla Carmen Ravanelli Guidotti e quindi non inclusa fra quelle della recente mostra “Il Secolo d’oro della Maiolica”; la mostra “mangia soldi” così l’ho definita per il clamoroso rapporto costi/ricavi e costi/contenuti scientifici, (Vedi foto n.1)

Il maiolicaro che ha dipinto il vaso è certamente di origine Montelupina;il decoro principale è quello della palmetta persiana,mentre il tipo di porcellana comune (vedi coperchio) è simile a quella dell’albarello pubblicato dal Berti ( nota n.4) con l’emblema di S.Maria Novella e la marca LA (Vedi foto n.2) che a mio avviso è quella della bottega di Lorenzo e Andrea detti “del rosso” nipoti di Lorenzo del Berna fratello di Benedetto da Siena. Lo stemma dipinto tra due cornucopie e il diamante mediceo è sicuramente dei GONDI anche se il maiolicaro ha invertito i colori: il fondo dello scudo da oro diventa blu e le “azze” in croce di S.Andrea da nere in oro, il nastro che le unisce in basso da rosso in oro. Non deve inoltre stupire il crescente montante lunare in oro aggiunto in alto tra le due mazze, poiché simboleggia in araldica “grande fortuna economica” e si addice perfettamente alla ricchezza dei Gondi in quel periodo. (Vedi foto n.3)

Quando gli pseudo studiosi della maiolica decideranno di dialogare con il sottoscritto potremo aprire una bella discussione, vivace ed interessante come quelle di inizio secolo XX, magari sul mio blog, sulla giusta lettura degli stemmi sulle maioliche. La forma è decisamente bella e molto originale, tanto originale che non ricordo di averne mai visto una simile; se i miei lettori ne possiedono una uguale li prego di inviarmi le foto relative.
Abbiamo finalmente un'altra data per una maiolica di Cafaggiolo, trovata in modo indiretto: estate del 1521, da aggiungere a quella 1507 del vaso del Konstslojdmuseet di Goteborg, Svezia, marcato SPR.

Se le mie “congetture” come direbbe il Guasti sono giuste,si possono trarre le seguenti deduzioni:
A Cafaggiolo hanno prodotto molte maioliche non marcate, come la nostra “scodella con coperchio”, quindi non è giusto e molto riduttivo come sostiene Alinari, studiare solo quelle con il marchio SPR o SP, anche perché quelle non marcate sono sicuramente molte di più. I vasai di Cafaggiolo, quelli che gestivano la fornace, erano sicuramente Piero e Stefano di Filippo di Dimitri Schiavone, i famosi “Fattorini”, mentre SP e SPR sono i marchi commerciali di Santo di Pietro de Rubeis (la R può stare anche per Ravenna); abbiamo a che fare con una vera colonia di figuli Romagnoli (anche il famoso Jacopo viene da Ravenna) ospiti per qualche mese all’anno nel Castello del Mugello.La data del 1521 è altresì importante perché, a mio avviso, segna lo spartiacque tra l’epoca di Jacopo o dei De Rubeis e quella dei figuli di Montelupo. Penso che Jacopo dopo quel periodo sia tornato a dipingere a Ravenna; infatti ho ritrovato recentemente alcuni documenti che potrebbero provare tutto questo,ma ho bisogno di fare altre indagini. Questo alternarsi di tanti figuli della “Superbottega” a Cafaggiolo, nella prima metà del XVI secolo, forse è alla base delle forti polemiche dei primi anni del Novecento tra gli studiosi toscani e quelli faentini, che forse non avevano tutti i torti poiché non conoscevano i DE Rubeis di Russi che del resto sono ancora sconosciuti alle studiose faentine dei nostri giorni. Un’altra cosa emerge da questi e da altri documenti pubblicati dal Guasti: nei primi decenni del XVI sec. La bottega di Cafaggiolo produceva splendide maioliche principalmente per i Medici e per altre famiglie a loro molto vicine politicamente.

Non riesco,come al solito,a capire che tipo di interesse od attenzione susciterà questo mio lavoro negli studiosi toscani e negli altri addetti ai lavori; per me che sono uno storico dilettante mi sembra una ricerca interessante e mi sento orgoglioso per il lavoro fatto: partire da quel documento di poche righe e ritrovare dopo quasi 5 secoli la scodella con coperchio di Marcantonio Gondi,fra l’altro ancora intatta e donare ad Alinari una data importante su cui riflettere ; ed ancor più mi intriga adesso, la possibilità di ricostruirne il percorso storico da Firenze a S.Pietroburgo nella lontana Russia.A presto!

Note :
n. 1 – Carteggio Mediceo avanti il Principato – Filza n. 1 n. 830.

n. 2 – Paola Novara e Alberto Piccini - Arte Viva

Fimantiquari – Due Secoli di Maiolica a Ravenna pag. 6/13).

n. 3 - Attualmente si pensa alle scodelle come oggetti di piccole dimensioni,anche se in molti inventari dell’ epoca - vedi in Cora – si citano spesso: scodelle e scodelline,scodellone,ischodelle damaxine e ischodelle coperchiate.

n. 4 – Storia della Maiolica di Montelupo – Vol. 3 pag. 273 n.86/87.


* Alessandro Alinari è uno studioso fiorentino,che si è occupato sempre di ceramica toscana ed in particolare di Cafaggiolo.Gli faccio i miei migliori auguri di successo per lo studio che sta attualmente portando avanti sui recenti scavi fatti nel Castello di Cafaggiolo grazie agli interventi finanziari di una Università americana. Approfitto per chiedere ad Alinari l’invio al mio indirizzo di posta elettronica delle foto a colori del famoso vaso di Goteborg.

ALBERTO PICCINI

P.S. – In questo freddo mese di Gennaio,a causa delle nevicate,del freddo,del gelo e di una fastidiosa influenza con ricaduta,sono stato chiuso in casa per diversi giorni ed ho potuto finalmente fare una ricerca molto noiosa ma tutto sommato utile che vorrei adesso pubblicare di seguito per invitare i dirigenti del M.I.C.Faenza ad una profonda riflessione sulla maiolica artistica prodotta in quel centro.

Ho semplicemente messo a confronto le attribuzioni a Faenza fatte dal Ballardini nel primo volume del Corpus delle Maioliche, del 1933 (opere datate entro il 1530) e quelle,per le stesse opere,fatte adesso dal sottoscritto.Stesso discorso per il catalogo RACKHam del Victoria and Albert Museum di Londra del 1940.Con i seguenti risultati :

Corpus del Ballardini : su 79 maioliche assegnate allora a Faenza,adesso si riducono a 5.
Catalogo VAM escluso il periodo arcaico : nel secolo XV da plate 19 al 35 compreso,maioliche attribuite a Faenza 104 e a oggi diventano 4; prima metà del XVI sec. da plate 36 a 84 compreso,attribuzioni del RACKHAM n.91 che si riducono ora a 31.

Questi numeri si commentano da soli e questa volta non voglio polemizzare ,ma invece dare un consiglio ai responsabili del Museo : investite di più e meglio in ricerca e date più spazio ai giovani!!!







Foto 1.
Foto 2.Foto 3.


lunedì 12 gennaio 2009

 GLI ALBARELLI DELLA COLLEZIONE VIVOLO







Nell’asta Sotheby’s - Milano del 13.novembre.2007, dedicata alla dispersione dell’importante collezione Vivolo (porcellane europee e alcune maioliche italiane) vi era una coppia di albarelli (num.8 del catalogo).





[FOTO 1]



Attribuiti a “Pesaro o Casteldurante circa 1580” decorati con trofei, entro una corona d’alloro, stemma araldico e iscrizione farmaceutica. L’estensore della scheda (non firmata), forse Luca Melegati consulente delle casa d’aste per le porcellane e le maioliche, ringrazia in calce la Carmen Ravanelli Guidotti “per le notizie cortesemente fornite” e quindi reputo che sia stata proprio la Conservatrice del M.I.C.-Faenza a depistare l’amico Luca (mai fidarsi dei cattivi maestri!). Gli albarelli fanno parte di una spezieria eseguita per una famiglia probabilmente senese, nella bottega di Giovanni di Sebastiano Gatti ad Acquapendente nel 1580; datazione certa poiché al M.I.C.-Faenza c’è un orciolo ex collezione Cora num.316 del catalogo, numero di inventario 21410, datato 1580, dipinto dalla stessa mano,facente parte della stessa spezieria ed attribuito senza esitazione ed erroneamente a Casteldurante dalla stessa Carmen Ravanelli Guidotti. Nella collezione Robert Montagute dispersa a Parigi nel 1992 c’erano altri due albarelli databili alla metà del XVI sec con lo stesso stemma di quelli Vivolo eseguiti sempre ad Acquapendente forse nella bottega dei Gatti ma certamente dipinti da una mano diversa.



[FOTO 2]





Altri due pezzi sono conservati al Museo Civico di Arezzo ed è particolarmente interessante l’orciolo num.333 del catalogo poiché è molto simile agli orcioli acquesiani del periodo. Giovanni di Sebastiano Gatti è l’ultimo di una vera stirpe di vasai acquesiani (la bottega era situata nel quartiere di Santa Vittoria presa a livello dai frati di Sant’Agostino) documentato dal 1576 in poi dal ricercatore Bonafede Mancini ( Acquapendente- 20.maggio.1997-Atti del convegno). Il più importante vasaio della famiglia è Francesco Gatti vissuto nella prima metà del XVI sec. sempre ad Acquapendente e citato molte volte nei documenti di Fabiano Buchicchio (Convegno del Maggio 1997-idem come sopra).Nella sua bottega hanno operato alcuni grandi pittori su maiolica come Giacomo Perissi detto il Beneventano e Gaium Petri Antonii. Tra i documenti pubblicati da Buchicchio e relativi a “Franciscus Gapty Vascellarius” ve n’è uno del 24.5.1502 che tutti gli Accademici blablaisti dovrebbero studiare a fondo per capire come funzionavano le botteghe dei vasai del Rinascimento; riassumendo: Francesco Gatti cerca di convincere “i patritij bracceschij” (gli eredi di Braccio da Montone- Perugia presenti ad Acquapendente) già finanziatori delle sue attività (ed anche di altri vasai locali) ad aumentare il loro impegno, autoincensandosi abbondantemente e vantandosi fra l’altro ,di fronte al notaio, del fatto di avere il pittore Gaium Petri Antonii in esclusiva ([…quod prefatus Gaius non valeat neque posset laborare in alia buctiga nisi in apoteca vascellarie dicti Francisci et prefatus Franciscus debeat…]). Giovanni di Sebastiano Gatti che evidentemente era anche un figulo, infatti sigla un albarello con anse a tortiglioni, datato 1558 con San Giovanni Battista in preghiera, posto attualmente nel Museo di Belle Arti di Digione, num.15 del catalogo









[FOTO 3]



 



Da notare di questo albarello : le due anse a tortiglioni tipiche della produzione di Acquapendente già nel XIV sec, lo stesso festone robbiano con le medesime rosette a fondo arancio con inclusi otto petali in giallo puntinati sempre in arancio, i nastri svolazzanti sul verso caratteristici di tutta la produzione acquesiana del secolo e anche oltre (decoro in genere attribuito a Deruta) ed al centro il San Giovanni Battista immagine tipica umbro-laziale (più spesso rappresentata con San Francesco) e naturalmente la sigla del maiolicaro e la data che si legge benissimo nel seguente dettaglio della foto 3.





[DETTAGLIO FOTO 3]



 



Nelle collezioni del Museo di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano c’è un’altra coppia di albarelli, num.55 e 56 del catalogo, molto simili a quelli della collezione Vivolo, stranamente non citati nella scheda di Melegati, attribuiti da G.Busti e F.Cocchi naturalmente a Deruta e retrodatati per errore agli inizi del XVI sec. È strano che la Carmen Ravanelli Guidotti vera mattatrice del comitato scientifico per la schedatura delle Maioliche Rinascimentali del Castello Sforzesco non si sia accorta che i due studiosi umbri attribuivano a Deruta ciò che lei spacciava per Casteldurante. I due albarelli portano sul fronte il marchio del pittore NO in monogramma che potrebbe, il condizionale in questo caso è d’obbligo, essere del figulo Nicolò Quintini documentato a Pesaro nel 1591 e figlio di Giacomo sarto originario di Urbino. In proposito, sarebbe interessante conoscere l’opinione di T.Wilson alle prese con la schedatura delle maioliche del British Museum, poiché nel Museo londinese vi è un piatto lustrato num. inventario MLA 1855, 12-1,81 attribuito a Deruta che porta sul verso il monogramma NOQ quasi una firma del pesarese Nicolò Quintini!; la datazione del pezzo fatta da Wilson 1510-40 andrebbe spostata in avanti al 1560-80 e solo vedendolo attentamente dal vivo, potrei averne la conferma. Questo proverebbe ciò che per me è già una certezza, cioè che i grandi figuli pesaresi continuarono a dipingere maioliche nelle botteghe di Acquapendente anche nella seconda metà del XVI sec ed oltre e confermerebbe un’altra mia tesi circa il lustro metallico oro e rosso prodotto nella Tuscia dai vasai provenienti da Pesaro. C’è un altro albarello siglato NQ databile allo stesso periodo e attribuito dalla Giuliana Gardelli nel 1987 allo “Stato di Urbino”





[FOTO 4]





[FOTO 4 bis]



 



I due studiosi di Deruta citano altri due albarelli pubblicati dal Chompret (pag.111-fig.874-75)



 



[FOTO 5]









Paiono provenire dalla stessa bottega” e così è poiché fra l’altro, oltre avere la stessa forma dei nostri, stesso festone e rosette, portano sul fronte sotto il cartiglio con l’iscrizione farmaceutica il marchio commerciale della bottega dei Gatti di Acquapendente (vedi Luzi-Romagnoli-1992-Tusciart-pag 159 scheda 58C in cui la G è graficamente riprodotta con la chiave musicale “SOL” ,usata a volte anche da Mastro Giorgio da Gubbio





[FOTO 000]



 



Ci sono ad Acquapendente diversi frammenti con lo stesso stemma; inoltre vedi le foto 6 e 6b di un piattello databile al 1535-45 ritrovato ad Acquapendente con al centro nel recto lo stemma Gatti (GA) e al verso nel piede “Mo Po FE” che sta per “maestro Pietro fecit” figulo che dovrebbe essere Pietro Antonio Gai figlio del sopracitato Gaium (Caio o Gai) Pietri Antonii). In alto, i due albarelli pubblicati dal Chompret, portano uno stemma nobiliare di una famiglia viterbese: i Faerno o forse i Franceschini.



 



[FOTO 6]



[FOTO 6b]





 



Per concludere, è obiettivamente molto difficile a distanza di tanti secoli ricostruire le vicende storiche di questi vasai o figuli importanti ,più o meno dotati, ma pur sempre dei piccoli artigiani, ma diventa addirittura “ mission impossible” se non si sceglie di dedicare molto impegno, con grande passione e mezzi finanziari adeguati ,alla ricerca storica a tutto campo, dai documenti d’archivio ai frammenti, dalle indagini sul territorio all’araldica,dal esame chimico-fisico delle terre a quello degli smalti; occorre indagare a lungo e con determinazione in ogni direzione alla ricerca della verità. A questi principi mi sono sempre attenuto nelle mie ormai decennali ricerche sulla cui validità saranno i “posteri” in futuro a pronunciarsi poiché non accetterò mai di sottopormi al giudizio degli Accademici. Mi viene spontaneo pensare: quali traguardi si potrebbero raggiungere nel tentare di riscrivere la storia della maiolica italiana,avendo a disposizione i mezzi del M.I.C.Faenza (per me,sarebbe sufficiente sfruttare la grande professionalità della Lorella Ralzi) o la “task-force” di Timothy Wilson a Londra.



L’altra riflessione doverosa va dedicata alla “superbottega”. Quando, circa una decina di anni fa, iniziai a parlarne, gli Accademici blablaisti mi risero dietro per lungo tempo,adesso dopo tanto insistere,molti degli addetti ai lavori lo considerano un concetto acquisito quasi scontato, naturalmente senza citarmi. Basta leggere attentamente questo contributo dedicato ai due albarelli della Coll.Vivolo per capire che non è più possibile andare alla ricerca esclusiva e spasmodica,molto spesso per motivi campanilistici,dei luoghi di produzione delle ceramiche,ma bisogna individuare e studiare i figuli,i pittori su maiolica quasi sempre  itineranti (purtroppo anche i vasai molto spesso avevano più botteghe in centri diversi) e quando possibile ricostruire i corpus delle loro opere e le vicende più importanti della loro vita,come si è sempre fatto nelle arti maggiori .Gli storici dell’arte che si sono occupati nel tempo di Michelangelo o di Raffaello ( questi geni dell’arte italica siglavano o firmavano molto meno di alcuni grandi maiolicari come i De Pace originari di S.Angelo in Lizzola – Pesaro o Santo di Francesco de Rubeis di Acquapendente) si sono preoccupati sempre in primis dell’attribuzione delle opere rimaste e di quelle documentate con dispute anche feroci e solo secondariamente hanno cercato di individuare le corti dove sono state dipinte (Firenze,Roma o Urbino). Solo gli Accademici blablaisti e anche, a dire la verità,molti “lokal patriot” continuano imperterriti alla ricerca quasi impossibile dei luoghi di produzione delle maioliche artistiche (forse una soluzione potrebbe essere quella di creare un “data base” delle analisi delle terre finalmente ben fatta) con risultati quasi farseschi ,tipo “Italia centro-settentrionale” (schede di T.Wilson e Carmen Ravanelli Guidotti principe e principessa degli Accademici blablaisti).









Alberto Piccini



Milano, 12 .01.09









P.S



Nella tarda primavera 2008, fui invitato a partecipare con un mio contributo ad una iniziativa nata in ambito abruzzese finalizzata ad una mostra sui “bianchi compendiari”. La professoressa Rosanna Proterra e la professoressa Giuliana Gardelli quando mi contattarono ipotizzavano una mostra incentrata prevalentemente sui “bianchi” non faentini. L’idea mi piacque, la ritengo anche adesso interessante ed originale anche se finii per rifiutare l’incarico per motivi personali.Pochi giorni fa ho saputo che la Fondazione Bancaria abruzzese ha deciso di affidare l’organizzazione tecnica della Mostra all’Associazione CIVITA e quella storico-scientifica al M.I.C. Faenza. Credo che una Mostra sui “bianchi compendiari” affidati alla Carmen Ravanelli Guidotti sarà di fatto, al di là del possibile successo commerciale, certamente l’opposto, la negazione dell’idea originaria di partenza. Sarà un remake di altre Mostre dei bianche faentini con gli stessi pezzi visti e rivisti mille volte senza sostanziali novità di carattere scientifico; la Carmen Ravanelli Guidotti passerà alla storia come la studiosa che per anni ha letto in modo errato il marchio commerciale VR-AF del maggior vasaio faentino del cinquecento Virgiliotto Calamelli ,certamente quello più blablato e mal studiato.



Nel terzo millennio una mostra di questo genere a mio avviso dovrebbe essere incentrata sui “bianchi” Castellani e soprattutto sulla produzione dei centri dell’area del Metauro ed Acquapendente ,notevoli per qualità e quantità. Senza dimenticare Ravenna, per rimanere in Romagna, che sicuramente anticipò, direi inventò i “bianchi” un decennio prima di Faenza.


 

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