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lunedì 12 gennaio 2009

 GLI ALBARELLI DELLA COLLEZIONE VIVOLO







Nell’asta Sotheby’s - Milano del 13.novembre.2007, dedicata alla dispersione dell’importante collezione Vivolo (porcellane europee e alcune maioliche italiane) vi era una coppia di albarelli (num.8 del catalogo).





[FOTO 1]



Attribuiti a “Pesaro o Casteldurante circa 1580” decorati con trofei, entro una corona d’alloro, stemma araldico e iscrizione farmaceutica. L’estensore della scheda (non firmata), forse Luca Melegati consulente delle casa d’aste per le porcellane e le maioliche, ringrazia in calce la Carmen Ravanelli Guidotti “per le notizie cortesemente fornite” e quindi reputo che sia stata proprio la Conservatrice del M.I.C.-Faenza a depistare l’amico Luca (mai fidarsi dei cattivi maestri!). Gli albarelli fanno parte di una spezieria eseguita per una famiglia probabilmente senese, nella bottega di Giovanni di Sebastiano Gatti ad Acquapendente nel 1580; datazione certa poiché al M.I.C.-Faenza c’è un orciolo ex collezione Cora num.316 del catalogo, numero di inventario 21410, datato 1580, dipinto dalla stessa mano,facente parte della stessa spezieria ed attribuito senza esitazione ed erroneamente a Casteldurante dalla stessa Carmen Ravanelli Guidotti. Nella collezione Robert Montagute dispersa a Parigi nel 1992 c’erano altri due albarelli databili alla metà del XVI sec con lo stesso stemma di quelli Vivolo eseguiti sempre ad Acquapendente forse nella bottega dei Gatti ma certamente dipinti da una mano diversa.



[FOTO 2]





Altri due pezzi sono conservati al Museo Civico di Arezzo ed è particolarmente interessante l’orciolo num.333 del catalogo poiché è molto simile agli orcioli acquesiani del periodo. Giovanni di Sebastiano Gatti è l’ultimo di una vera stirpe di vasai acquesiani (la bottega era situata nel quartiere di Santa Vittoria presa a livello dai frati di Sant’Agostino) documentato dal 1576 in poi dal ricercatore Bonafede Mancini ( Acquapendente- 20.maggio.1997-Atti del convegno). Il più importante vasaio della famiglia è Francesco Gatti vissuto nella prima metà del XVI sec. sempre ad Acquapendente e citato molte volte nei documenti di Fabiano Buchicchio (Convegno del Maggio 1997-idem come sopra).Nella sua bottega hanno operato alcuni grandi pittori su maiolica come Giacomo Perissi detto il Beneventano e Gaium Petri Antonii. Tra i documenti pubblicati da Buchicchio e relativi a “Franciscus Gapty Vascellarius” ve n’è uno del 24.5.1502 che tutti gli Accademici blablaisti dovrebbero studiare a fondo per capire come funzionavano le botteghe dei vasai del Rinascimento; riassumendo: Francesco Gatti cerca di convincere “i patritij bracceschij” (gli eredi di Braccio da Montone- Perugia presenti ad Acquapendente) già finanziatori delle sue attività (ed anche di altri vasai locali) ad aumentare il loro impegno, autoincensandosi abbondantemente e vantandosi fra l’altro ,di fronte al notaio, del fatto di avere il pittore Gaium Petri Antonii in esclusiva ([…quod prefatus Gaius non valeat neque posset laborare in alia buctiga nisi in apoteca vascellarie dicti Francisci et prefatus Franciscus debeat…]). Giovanni di Sebastiano Gatti che evidentemente era anche un figulo, infatti sigla un albarello con anse a tortiglioni, datato 1558 con San Giovanni Battista in preghiera, posto attualmente nel Museo di Belle Arti di Digione, num.15 del catalogo









[FOTO 3]



 



Da notare di questo albarello : le due anse a tortiglioni tipiche della produzione di Acquapendente già nel XIV sec, lo stesso festone robbiano con le medesime rosette a fondo arancio con inclusi otto petali in giallo puntinati sempre in arancio, i nastri svolazzanti sul verso caratteristici di tutta la produzione acquesiana del secolo e anche oltre (decoro in genere attribuito a Deruta) ed al centro il San Giovanni Battista immagine tipica umbro-laziale (più spesso rappresentata con San Francesco) e naturalmente la sigla del maiolicaro e la data che si legge benissimo nel seguente dettaglio della foto 3.





[DETTAGLIO FOTO 3]



 



Nelle collezioni del Museo di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano c’è un’altra coppia di albarelli, num.55 e 56 del catalogo, molto simili a quelli della collezione Vivolo, stranamente non citati nella scheda di Melegati, attribuiti da G.Busti e F.Cocchi naturalmente a Deruta e retrodatati per errore agli inizi del XVI sec. È strano che la Carmen Ravanelli Guidotti vera mattatrice del comitato scientifico per la schedatura delle Maioliche Rinascimentali del Castello Sforzesco non si sia accorta che i due studiosi umbri attribuivano a Deruta ciò che lei spacciava per Casteldurante. I due albarelli portano sul fronte il marchio del pittore NO in monogramma che potrebbe, il condizionale in questo caso è d’obbligo, essere del figulo Nicolò Quintini documentato a Pesaro nel 1591 e figlio di Giacomo sarto originario di Urbino. In proposito, sarebbe interessante conoscere l’opinione di T.Wilson alle prese con la schedatura delle maioliche del British Museum, poiché nel Museo londinese vi è un piatto lustrato num. inventario MLA 1855, 12-1,81 attribuito a Deruta che porta sul verso il monogramma NOQ quasi una firma del pesarese Nicolò Quintini!; la datazione del pezzo fatta da Wilson 1510-40 andrebbe spostata in avanti al 1560-80 e solo vedendolo attentamente dal vivo, potrei averne la conferma. Questo proverebbe ciò che per me è già una certezza, cioè che i grandi figuli pesaresi continuarono a dipingere maioliche nelle botteghe di Acquapendente anche nella seconda metà del XVI sec ed oltre e confermerebbe un’altra mia tesi circa il lustro metallico oro e rosso prodotto nella Tuscia dai vasai provenienti da Pesaro. C’è un altro albarello siglato NQ databile allo stesso periodo e attribuito dalla Giuliana Gardelli nel 1987 allo “Stato di Urbino”





[FOTO 4]





[FOTO 4 bis]



 



I due studiosi di Deruta citano altri due albarelli pubblicati dal Chompret (pag.111-fig.874-75)



 



[FOTO 5]









Paiono provenire dalla stessa bottega” e così è poiché fra l’altro, oltre avere la stessa forma dei nostri, stesso festone e rosette, portano sul fronte sotto il cartiglio con l’iscrizione farmaceutica il marchio commerciale della bottega dei Gatti di Acquapendente (vedi Luzi-Romagnoli-1992-Tusciart-pag 159 scheda 58C in cui la G è graficamente riprodotta con la chiave musicale “SOL” ,usata a volte anche da Mastro Giorgio da Gubbio





[FOTO 000]



 



Ci sono ad Acquapendente diversi frammenti con lo stesso stemma; inoltre vedi le foto 6 e 6b di un piattello databile al 1535-45 ritrovato ad Acquapendente con al centro nel recto lo stemma Gatti (GA) e al verso nel piede “Mo Po FE” che sta per “maestro Pietro fecit” figulo che dovrebbe essere Pietro Antonio Gai figlio del sopracitato Gaium (Caio o Gai) Pietri Antonii). In alto, i due albarelli pubblicati dal Chompret, portano uno stemma nobiliare di una famiglia viterbese: i Faerno o forse i Franceschini.



 



[FOTO 6]



[FOTO 6b]





 



Per concludere, è obiettivamente molto difficile a distanza di tanti secoli ricostruire le vicende storiche di questi vasai o figuli importanti ,più o meno dotati, ma pur sempre dei piccoli artigiani, ma diventa addirittura “ mission impossible” se non si sceglie di dedicare molto impegno, con grande passione e mezzi finanziari adeguati ,alla ricerca storica a tutto campo, dai documenti d’archivio ai frammenti, dalle indagini sul territorio all’araldica,dal esame chimico-fisico delle terre a quello degli smalti; occorre indagare a lungo e con determinazione in ogni direzione alla ricerca della verità. A questi principi mi sono sempre attenuto nelle mie ormai decennali ricerche sulla cui validità saranno i “posteri” in futuro a pronunciarsi poiché non accetterò mai di sottopormi al giudizio degli Accademici. Mi viene spontaneo pensare: quali traguardi si potrebbero raggiungere nel tentare di riscrivere la storia della maiolica italiana,avendo a disposizione i mezzi del M.I.C.Faenza (per me,sarebbe sufficiente sfruttare la grande professionalità della Lorella Ralzi) o la “task-force” di Timothy Wilson a Londra.



L’altra riflessione doverosa va dedicata alla “superbottega”. Quando, circa una decina di anni fa, iniziai a parlarne, gli Accademici blablaisti mi risero dietro per lungo tempo,adesso dopo tanto insistere,molti degli addetti ai lavori lo considerano un concetto acquisito quasi scontato, naturalmente senza citarmi. Basta leggere attentamente questo contributo dedicato ai due albarelli della Coll.Vivolo per capire che non è più possibile andare alla ricerca esclusiva e spasmodica,molto spesso per motivi campanilistici,dei luoghi di produzione delle ceramiche,ma bisogna individuare e studiare i figuli,i pittori su maiolica quasi sempre  itineranti (purtroppo anche i vasai molto spesso avevano più botteghe in centri diversi) e quando possibile ricostruire i corpus delle loro opere e le vicende più importanti della loro vita,come si è sempre fatto nelle arti maggiori .Gli storici dell’arte che si sono occupati nel tempo di Michelangelo o di Raffaello ( questi geni dell’arte italica siglavano o firmavano molto meno di alcuni grandi maiolicari come i De Pace originari di S.Angelo in Lizzola – Pesaro o Santo di Francesco de Rubeis di Acquapendente) si sono preoccupati sempre in primis dell’attribuzione delle opere rimaste e di quelle documentate con dispute anche feroci e solo secondariamente hanno cercato di individuare le corti dove sono state dipinte (Firenze,Roma o Urbino). Solo gli Accademici blablaisti e anche, a dire la verità,molti “lokal patriot” continuano imperterriti alla ricerca quasi impossibile dei luoghi di produzione delle maioliche artistiche (forse una soluzione potrebbe essere quella di creare un “data base” delle analisi delle terre finalmente ben fatta) con risultati quasi farseschi ,tipo “Italia centro-settentrionale” (schede di T.Wilson e Carmen Ravanelli Guidotti principe e principessa degli Accademici blablaisti).









Alberto Piccini



Milano, 12 .01.09









P.S



Nella tarda primavera 2008, fui invitato a partecipare con un mio contributo ad una iniziativa nata in ambito abruzzese finalizzata ad una mostra sui “bianchi compendiari”. La professoressa Rosanna Proterra e la professoressa Giuliana Gardelli quando mi contattarono ipotizzavano una mostra incentrata prevalentemente sui “bianchi” non faentini. L’idea mi piacque, la ritengo anche adesso interessante ed originale anche se finii per rifiutare l’incarico per motivi personali.Pochi giorni fa ho saputo che la Fondazione Bancaria abruzzese ha deciso di affidare l’organizzazione tecnica della Mostra all’Associazione CIVITA e quella storico-scientifica al M.I.C. Faenza. Credo che una Mostra sui “bianchi compendiari” affidati alla Carmen Ravanelli Guidotti sarà di fatto, al di là del possibile successo commerciale, certamente l’opposto, la negazione dell’idea originaria di partenza. Sarà un remake di altre Mostre dei bianche faentini con gli stessi pezzi visti e rivisti mille volte senza sostanziali novità di carattere scientifico; la Carmen Ravanelli Guidotti passerà alla storia come la studiosa che per anni ha letto in modo errato il marchio commerciale VR-AF del maggior vasaio faentino del cinquecento Virgiliotto Calamelli ,certamente quello più blablato e mal studiato.



Nel terzo millennio una mostra di questo genere a mio avviso dovrebbe essere incentrata sui “bianchi” Castellani e soprattutto sulla produzione dei centri dell’area del Metauro ed Acquapendente ,notevoli per qualità e quantità. Senza dimenticare Ravenna, per rimanere in Romagna, che sicuramente anticipò, direi inventò i “bianchi” un decennio prima di Faenza.


 

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